Audizione di Oreste Rutigliano e di Alberto Cuppini
per l’indagine conoscitiva della X Commissione della Camera dei Deputati
sulle prospettive di attuazione e di adeguamento della Strategia Energetica Nazionale
al Piano Nazionale Energia e Clima per il 2030.
Roma, 25 novembre 2019
La Strategia Energetica Nazionale
Il 31 luglio del 2017 il Comitato Nazionale per il Paesaggio, assieme ad una decina di associazioni ambientaliste tutte fautrici delle fonti energetiche rinnovabili (di seguito FER) ma consce dei limiti delle fonti rinnovabili elettriche intermittenti - e delle conseguenze della colossale speculazione finanziaria e territoriale che caratterizza il loro sviluppo da anni ingovernato - aveva trasmesso al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Ministri interessati una lettera di osservazioni al documento sottoposto a consultazione pubblica "Strategia Energetica Nazionale" (di seguito SEN), individuandone alcune implicazioni negative. Lo scopo era quello di richiamare una più rigorosa valutazione, in primo luogo, sulle gravi conseguenze derivanti dal perdurare di una politica disinvolta in materia di insediamento di centrali eoliche.
In estrema sintesi, si chiedeva allora di fermare il non necessario disastro urbanistico, territoriale, ambientale, paesaggistico in atto con la corsa all'eolico (e ad alcune altre tecnologie impattanti come il cosiddetto mini- idro), e di dirottare più utilmente le risorse finanziarie verso serie politiche di efficienza e risparmio energetico, riscaldamento-raffrescamento, trasporti e soprattutto ricerca e innovazione. Si accettava una eventuale, moderata crescita delle rinnovabili elettriche non modulabili solo con il fotovoltaico sulle superfici edificate.
Per confrontarsi su tale lettera di osservazioni, il 6 settembre 2017 alcuni rappresentanti del cartello di associazioni firmatarie erano stati ricevuti al Ministero dello Sviluppo Economico. Al termine dell'incontro, il segretario generale del Ministero aveva chiesto delucidazioni per iscritto, tra l'altro, sul "consistente recupero della produttività" del sistema idroelettrico a bacino prospettato nel documento comune. Ne era scaturito un pro memoria per il Ministero dal titolo "Enormi potenzialità inespresse del sistema di generazione idroelettrica a bacino esistente in Italia" .
Nessuna delle nostre argomentazioni, suggerimenti o critiche è stata tuttavia presa in considerazione nella redazione del testo definitivo della nuova SEN. Al contrario, l'obiettivo europeo al 2030 del 27% della produzione di energia da FER in rapporto al consumo interno è stato addirittura portato nel testo definitivo della SEN al 28%, concentrando l'aumento proprio nel settore delle rinnovabili elettriche, il cui obiettivo è stato aumentato, rispetto al già velleitario, costosissimo ed eccessivamente performante 48,5% proposto nel testo della SEN sottoposta a pubblica consultazione, al 55%, e riservando questo ulteriore aumento proprio ai settori dell'eolico e del fotovoltaico, energie ovviamente non programmabili. Una differenza incrementale del 5-7% è tutt'altro che trascurabile. Lo scorso anno la produzione dell'intero settore eolico in Italia, con tutti i danni ambientali e paesaggistici che gli oltre 7.000 aerogeneratori esistenti hanno già arrecato, ha corrisposto a circa il 5% dei consumi elettrici nazionali, pari a, si badi bene, 1,5% del fabbisogno energetico complessivo!
La nuova SEN prospetta di impegnare complessivamente, per il raggiungimento degli obiettivi al 2030, altri 35 miliardi di euro. Facendo qualche conteggio elementare scopriamo che il solo aumento dall'attuale 32-35% (in condizioni di normale piovosità) al 55% della produzione elettrica da rinnovabili sui consumi previsto per il 2030 dovrà essere, in costanza dei consumi correnti, grosso modo equivalente alla attuale produzione elettrica da FER incentivata, cioè di 65,5 TWh. Appare stravagante credere che per finanziare tale incremento si possano spendere 35 miliardi se negli ultimi anni, per incentivare la stessa quantità di energia elettrica, a regime risultano essere già stati impegnati circa 230 MLD, una cifra, cioè, equivalente al 13% del PIL italiano corrente o, se si preferisce, a circa il 10% dell'immane debito pubblico del Paese. Lo sforzo fin qui compiuto ha contribuito alla deindustrializzazione e all'impoverimento del Paese, già colpito dalla crisi economica nell'ultimo decennio. Questi incentivi, figli del conformismo del pensiero unico ambientalista e che si protraggono ormai da quasi vent'anni, hanno distorto il mercato elettrico, la concorrenza e soprattutto la capacità innovativa verso soluzioni energetiche veramente alternative agli idrocarburi fossili ed al nucleare a fissione. Al contrario, per la loro stessa entità difficilmente concepibile al cittadino comune, hanno creato ogni sorta di dipendenza in troppe amministrazioni pubbliche.
Non solo: privilegiando, tramite la priorità di dispacciamento, le fonti non programmabili come eolico e fotovoltaico, si è pure destabilizzato tutto il sistema elettrico italiano. Ne leggiamo la gravissima ammissione a pag.115 e 116 della stessa SEN. Nel 2016 non abbiamo solo sperperato 14,4 miliardi di incentivi per sussidiare appena 65,5 TWh su un consumo interno lordo di 321,8 TWh (una spesa, cioè, equivalente a oltre l'uno per cento del PIL annuale, considerando tutti i costi ancillari dovuti alla natura erratica della produzione eolica e fotovoltaica, per incentivare la produzione di appena il 20% dell'energia elettrica consumata in Italia), ma abbiamo anche più volte corso "rischi per la sicurezza", ovvero blackout dalla durata e dagli esiti imprevedibili.
La Strategia Energetica Nazionale si riduce così ad una Strategia Elettrica Nazionale dove appare ormai evidente che ci troviamo ad affrontare le spinte di alcune lobby che stanno cercando di imporre "una" soluzione come "la" soluzione del futuro, evitando che il dibattito e le analisi prendano in considerazione tutte le soluzioni possibili, scegliendo la migliore, la più conveniente e sostenibile per il Paese. La decarbonizzazione non passa infatti solo dall'elettrico, né tanto meno dall'eolico industriale, meno che mai in Italia.
Il Governo uscente, invece, ha lavorato con alacrità, prima dell'incombente fine della legislatura, su due fronti convergenti:
1) per scrivere un nuovo decreto (c.d. decreto FER 1) per altre, ennesime aste per eolico e fotovoltaico, al fine di incentivare un gran numero di grossi impianti FER non programmabili già nel triennio 2018-2020. Iniziativa del tutto irrazionale e intempestiva se proprio la SEN (pag.17) ne prevede l'evoluzione verso la market parity già dal 2020. La sproporzione nella ripartizione degli incentivi (da addebitare nelle bollette elettriche) favorisce alcuni comparti a scapito di altri ed esclude, senza preavviso e motivo apparente, interi settori. Considerando poi che gli impianti FV e eolici di grandi dimensioni sono destinati ad essere incettati, come sta accadendo per quelli già esistenti, da grandi gruppi multinazionali, il decreto appare strumentale a comportamenti speculativi.
2) per una legislazione ambientale più permissiva per l'eolico. Leggiamo dalla nuova Sen: (pag. 266) "A livello amministrativo si proporranno (...) linee guida (...) in materia di energia (...) in particolare in tema di semplificazioni delle autorizzazioni per le infrastrutture e gli impianti energetici (...) In questo processo di semplificazione, un'importanza specifica avrà l'aggiornamento delle linee guida sugli impianti di produzione di energia elettrica rinnovabile..." e (pag. 88): "Per la questione eolico e paesaggio, pare opportuno un aggiornamento delle linee guida per il corretto inserimento degli impianti eolici nel paesaggio e sul territorio, approvate nel 2010, che consideri la tendenza verso aerogeneratori di taglia crescente e più efficienti, per i quali si pone il tema di un adeguamento dei criteri di analisi dell'impatto e delle misure di mitigazione".
Va da sé che siamo assolutamente contrari alla riduzione delle tutele per l'installazione di nuovi o più potenti impianti eolici, che anzi meriterebbero ben altre modifiche. Già adesso le linee guida nazionali in materia di eolico offrono tutele risibili mentre Piani paesistici e norme urbanistiche regionali in materia sono "ostaggio" di plateali condizionamenti. Parlare di "mitigazione" (si veda anche la pag. 55 della SEN) risulta offensivo non tanto per noi ma per il buon senso di chi usa questo termine per impianti colossali (stanno per essere installati anche in Italia i primi aerogeneratori alti complessivamente 200 metri) posti il più delle volte in cima alle montagne e nelle aree più preservate del Paese. Una virtuale passeggiata tra le colline martoriate dell'Italia Centro meridionale varrebbe più di mille descrizioni.
L'iter per il decreto FER 1 è proseguito anche dopo le elezioni politiche, contro tutte le evidenze e nonostante gli obiettivi al 2020 già da tempo raggiunti, i rischi di black out, i costi in bolletta già ora esorbitanti, gli aumenti preannunciati nelle bollette elettriche delle famiglie e delle piccole e medie imprese a causa dei costi accessori indotti dalle FER non programmabili (per il finanziamento agli energivori, il capacity market, gli effetti del sistema degressivo rinviato appositamente a dopo le elezioni, le nuove reti "resilienti", i sistemi di accumulo e soprattutto, in prospettiva, per il costo schiacciante dei nuovi incentivi per raggiungere gli obiettivi della SEN al 2030), l'usura tecnologica precoce delle pale e dei pannelli già installati, le alternative più convenienti, eccetera.
In tema di costi è utile ricordare, come ha scritto il Presidente Onorario del Consiglio Italiano del WEC (World Energy Council) A l e s s a n d r o C l e r i c i che "per un corretto ed affidabile funzionamento del sistema elettrico, quando le rinnovabili non programmabili raggiungono valori in percentuale di potenza installata elevati (e li abbiamo già superati in Italia) necessitano notevoli investimenti addizionali a quelli per la pura produzione volatile di elettricità. Come sottolineato nel convegno del 2018 dei principali grid operator mondiali (GO15) con ICER (International Center Energy Regulators), ad ogni euro investito in eolico e FV corrispondono almeno altrettanti euro di investimenti indispensabili nel sistema elettrico".
Non ha prodotto alcun effetto ostativo neppure il traumatico annuncio da parte del Ministero dell'Ambiente tedesco che la Germania - alla cui politica di svolta energetica (Energiewende) gli estensori della SEN hanno tratto evidente ispirazione - non avrebbe rispettato il suo impegno di riduzione delle emissioni di CO2 come stabilito dagli accordi europei per il 2020, nonostante i traumatici e costosissimi 58 GW di eolico installato (in Italia sono 10 GW) e 43 GW di potenziale solare. Non è qui inopportuno ricordare che la maggioranza degli aerogeneratori giganti installati in Italia provengono proprio da imprese tedesche.
Inoltre, come recentemente osservato dal Professor Alberto Clò: "tutti i trends sono fuori linea rispetto a quelli attesi: forte aumento dell'efficienza energetica, boom delle rinnovabili, aumento della penetrazione elettrica (con consumi ancora inferiori a quelli del 2012), riduzione del gap con gli altri paesi europei. Si vadano a rileggere gli scenari contenuti nella Sen 2017 di solo un anno fa per rendersi conto di come poco si prevedeva quello che sta accadendo. Come colmare il divario tra auspici e realtà? La risposta sta nella politica che serve proprio a corregge il corso delle cose quando il mercato non le orienta inerzialmente verso obiettivi ritenuti di interesse generale. Evitando, come in passato, di ricorrere solo a incentivi a pioggia con indebiti vantaggi per pochi e indebiti costi per la collettività".
Il Piano Nazionale integrato Energia Clima.
Nel PNIEC vengono tradotti in cifre gli obiettivi italiani al 2030 illustrati nella Strategia Energetica ed in particolare quelli della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, che ci appaiono, per l'entità sproporzionata dei costi sottesi, il vero traguardo a cui si punta nel documento: ci dobbiamo attendere, in prospettiva 2030, l'installazione di una quantità stragrande di pale eoliche. Il PNIEC, se approvato (come sarà approvato) dalla CE, diventerebbe infatti vincolante per l'Italia e renderebbe tale installazione (cha la nuova SEN fa vagheggiare pressoché a costo zero), di fatto, obbligatoria. Si dovranno quindi costruire a tutti i costi impianti eolici dovunque. "A tutti i costi" si deve intendere sia in senso stretto (come esborso finanziario per la collettività) sia in senso metaforico. E cioè, crediamo di potere anticipare, con l'allentamento dei già flebili vincoli ambientali e paesaggistici ed il superamento di ultra decennali tutele amministrative, da considerarsi a quel punto alla stregua di puri e semplici impacci.
Purtroppo, nonostante tutte le evidenze, i limiti principali della SEN sono stati riproposti nel PNIEC. L'obiettivo di produzione di energia da Fer è stato ulteriormente elevato al 30%.
La produzione del fotovoltaico, che dovrà passare da poco più dei 20 TWh del 2018 ai 74,5 del 2030, è destinata a quasi quadruplicare e la produzione da eolico, che dovrà passare dai 17 TWh del 2018 ai 40,1 del 2030, dovrà più che raddoppiare. Anche nel caso del PNIEC non si può pensare che, per realizzare al 2030 un incremento di produzione elettrica da Fer di circa 65 TWh rispetto all'attuale, si prospetti di spendere "solo" 36 miliardi addizionali, mentre per incentivare la stessa identica produzione (circa 65 TWh all'anno sono attualmente incentivati) sono stati impegnati negli ultimi anni (ed in larga parte già spesi) circa 230 miliardi.
Il PNIEC non ci dice neppure se i costi per i cittadini continueranno ad essere occultati in bolletta o se verranno addossati alla fiscalità generale oppure se verranno finanziati in deficit spending. Intanto persiste un gap tra i prezzi pagati per l'elettricità dalle imprese italiane, in particolare le piccole, rispetto ai concorrenti europei ed a maggior ragione a quelli extra europei. Il divario di prezzo è determinato pressochè interamente dagli oneri fiscali e parafiscali. Con gli oneri aggiuntivi insiti negli obiettivi PNIEC al 2030, sta dunque per piovere sul bagnato, con il concreto rischio, per l'economia italiana, di un'uscita di strada. Ciò comporterà, prima o poi, la totale delocalizzazione delle nostre industrie in altri Paesi dove l'ideologia mainstream della transizione energetica basata sulle rinnovabili ed il mantra della "decarbonizzazione integrale" non saranno state neppure prese in considerazione.
Tutti i numeri del PNIEC afferenti ai costi vengono dati a braccio e con la massima superficialità. Con il PNIEC aumenteranno le voci "Reti" e "Accumuli" e quelle relative al dispacciamento e al bilanciamento del sistema. La stessa Terna ammette che non è neppure scontato che, chiudendo il grosso della generazione termoelettrica, il sistema elettrico tenga. Tutte le obiezioni tecniche sono però risolvibili, ma con costi che sommati diventerebbero schiaccianti ed insostenibili per qualsiasi economia, ed in particolare per l'arrancante economia italiana dell'ultimo ventennio.
Il PNIEC prevede 184 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi. E' però facile prevedere che la spesa totale potrebbe essere, a regime, addirittura il doppio dei previsti 184 miliardi (determinando, tra l'altro, un'ulteriore pesante riduzione di competitività delle imprese italiane, in particolare quelle manifatturiere esposte alla concorrenza internazionale), da aggiungere ai circa 230 già stanziati solo per gli incentivi alle Fer elettriche. Alla fine risulterà un impegno pro capite complessivo nell'ordine dei 10 mila euro, una cifra da capogiro che ciascun italiano, in media, dovrà sopportare, senza peraltro ottenere alcuna riduzione delle emissioni globali clima- alteranti, destinate ad aumentare a dismisura in tutto il resto del mondo (anche a causa del carbon leakage) tranne che in Europa, dove ci si ispira fideisticamente alle conclusioni dei Summit dell'Onu sui cambiamenti climatici.
Ad inoppugnabile testimonianza della inconsistenza dei costosissimi sforzi di queste politiche europee (ed italiane in particolare), va qui ricordato che dal 1992, anno del primo Summit della Terra a Rio de Janeiro, ad oggi le emissioni globali di CO2 da energia sono aumentate del 60%.
La politica europea del clima: urge un ripensamento.
La politica europea avrebbe potuto essere più efficace se si fosse basata su un solo semplice target di riduzione delle emissioni. Il dover rispettare obiettivi di secondo ordine, come la percentuale di energia da rinnovabili sui consumi, renderà meno efficace, più costoso (l'Italia già nel 2016 è stata prima tra i Paesi del G20 nei prezzi finali dell'elettricità all'industria) e meno tempestivo lo sforzo verso l'obiettivo primario. Interesse nazionale, benessere della popolazione, profitti delle imprese non possono essere ignorati in nessun caso, pena l'auto- mutilazione energetica della Nazione e la rivolta degli italiani.
Citando ancora Clò: "L'economia dei divieti e della burocrazia realizzata col pretesto dell'ecologia è un'economia percepita come punitiva e perciò stesso respinta", come dimostra l'esperienza dei gilet gialli in Francia e le resistenze sempre più forti dei comitati anti-eolici in Germania, dove le gravissime crisi di due grandi aziende produttrici di aerogeneratori come la Nordex e l'Enercon stanno a testimoniare l'impossibilità di fare sopravvivere quel settore industriale senza continue iniezioni di sussidi pubblici. I fatti confermano che l'ecologismo spinto all'estremo, nonostante i buoni sentimenti e le buone intenzioni, degenera in un'utopia reazionaria. Come ha scritto poche settimane fa Lucio Caracciolo, "ci viene il sospetto che la transizione in corso non sia tanto dal fossile al rinnovabile, ma da quel che resta della democrazia verso qualche forma di autocrazia".
Appare necessario non affidarsi più, per affrontare il problema della riduzione della emissione globale dei gas clima-alteranti, nè ai cavillosi regolamenti dei tecnocrati della Commissione europea ad egemonia tedesca nè al pensiero unico dell'integralismo ambientalista a cui si è ispirata la COP21 di Parigi. Il tema principale della politica, oggi, è salvare l'Unione Europea da regole troppo stringenti, in particolare da quel misto di ordoliberismo e neomercantilismo che la sta soffocando. E' indispensabile cambiare l'Europa per non sfarinarla ed anzi utilizzarla come volano di sviluppo. Se si confermassero le politiche in essere, lo sfaldamento già avviato sarebbe destinato ad accelerare. Il primo segnale per dimostrare che la rotta è cambiata dovrebbe essere l'immediata abolizione del Clean Energy Package, a cui dovrebbe seguire un diverso approccio europeo verso le COP dell'Onu (definite da Lucio Caracciolo "incentivo al turismo di massa delle élite, non certo alla riduzione delle emissioni di CO2"), pretendendo come condizione preliminare, prima di spendere un altro euro o di intraprendere nuove politiche restrittive, che tutti gli altri Paesi si conformino ai migliori standard europei di efficienza energetica.
Eolico: obiettivi ancora in aumento nel PNIEC.
Quel che per noi è peggio, la quota di Fer elettriche è stata di nuovo innalzata nella bozza del PNIEC inviata a Bruxelles, passando dal già velleitario 55% della SEN al 55,4%. In termini di potenza, l'eolico previsto al 2030 è pari a 18.400 MW, di cui 900 off-shore. Rispetto agli attuali 10.000 MW (soglia superata nel 2018), il coefficiente di aumento è perciò dell' 84%. Un dato enorme in sè, apocalittico per il paesaggio italiano. Ma purtroppo la realtà è ben più grave.
L'elettricità prodotta dall'eolico è prevista al 2030 a 40,1 TWh, superiore a quanto indicato nella Sen e superiore persino al massimo del "potenziale eolico italiano" recentemente indicato in 36,4 TWh dalla stessa associazione di categoria (Anev), con uno spettacolare aumento, rispetto ai 17 TWh prodotti nel 2018, di 23,1 TWh, pari ad un incremento percentuale del 135%. Per aumentare del 135% l'attuale produzione eolica è ragionevole attendersi, a causa dell'esaurimento dei siti più produttivi, l'installazione di nuovo potenziale eolico grosso modo corrispondente ad una volta e mezza quello attuale. E' perciò verosimile aspettarsi al 2030 altri 15 GW di eolico in aggiunta agli attuali 10 GW. Questo aumento atteso potrebbe diminuire leggermente nella prospettiva di pale eoliche decisamente più alte delle attuali (prospettiva che ci riempie di orrore) oppure di sfruttamento di siti finora vincolati (ipotesi, questa, assolutamente inaccettabile).
Recentissimamente alla Camera, in occasione di una interpellanza urgente, l'Onorevole Maraia ha affermato: "Io vivo tra le province di Avellino e Benevento dove l'eolico incontrollato è diventato un'emergenza sociale". Noi temiamo che, a causa dei nuovi valori obiettivo, tale emergenza si estenda a tutti i territori appenninici.
Si deve inoltre dedurre, in assenza di breakthrough tecnologici e di significativi segnali di riduzione dei prezzi degli aerogeneratori, che si intende ritornare ad un sistema di incentivazione più prodigo e privo sia di contingentamenti che di tetti di spesa, analogo a quello dei certificati verdi adottato fino al 2012. Lo strumento individuato per realizzare questa immensa operazione speculativa, prospettata nel PNIEC in una illusoria market parity, è il PPA (Power Purchase Agreement).
Il PPA (Power Purchase Agreement).
Il PPA è un contratto di acquisto dell'energia, sul libero mercato, che un acquirente offre al produttore al fine di ottenere alcuni vantaggi reciproci. Fin qui niente di male: i PPA sono già in uso anche in Italia. Il male compare quando si comincia a parlare di incentivarli "attraverso una garanzia pubblica", magari non sul prezzo, perchè sarebbe troppo sfacciato, ma, ad esempio, intervenendo d'imperio fissando quantità obbligatorie, la qual cosa porterebbe comunque, sebbene indirettamente, ad una garanzia sul prezzo.
Il rischio è che si spalanchi un pozzo senza fondo, così come già accaduto in passato, quando il Governo aveva prestato un'analoga garanzia pubblica per i certificati verdi (CV). Quella sciagurata esperienza, anch'essa animata inizialmente da tante belle intenzioni, deve servire da monito per il futuro. La garanzia pubblica rappresentò il vulnus che avrebbe distrutto definitivamente la logica stessa del sistema dei CV (che erano anch'essi contratti di acquisto tra privati) ed aperto le cateratte degli incentivi senza fine all'eolico, facendo alla fine carico allo Stato (attraverso il Gse) di acquistare i CV prodotti in eccedenza ad un prezzo altissimo e predeterminato. Fin dall'inizio il sistema cominciò a vivere di vita propria e da allora avrebbe proceduto, auto- alimentandosi, secondo logiche eterodosse, con i disastrosi risultati che ben conosciamo e concludendosi con la conversione forzosa (di dubbia legittimità) dei CV in incentivi diretti equivalenti, che stiamo ancora pagando.
Lanciamo qui l'allarme per contrastare con il massimo vigore questo tentativo di introdurre un cavallo di Troia, in grado di fare gonfiare ancor di più gli oneri - già oggi insopportabili - a carico dei cittadini. A prescindere dal tipo dell'eventuale misura che il Governo vorrà adottare per ricoprire l'Italia di pannelli e di pale eoliche al fine di raggiungere i propri obiettivi di produzione di energia elettrica (inutile, se non dannosa, perché non programmabile), quello che importa sapere è che, dopo il 2020, l'incentivazione, anziché essere diretta, come avviene adesso con il sistema delle aste competitive, rischia di tornare ad essere indiretta, per meglio nasconderne i costi agli utenti ma soprattutto per eliminare i tetti di spesa, come all'epoca dei certificati verdi. Se proprio sarà necessario continuare ad incentivare (o, come sarebbe meglio dire, sussidiare) l'eolico, è di gran lunga preferibile mantenere l'attuale sistema delle aste competitive.
La falsa speranza negli accumuli elettrici.
Sul PNIEC (ed in particolare sul settore elettrico) incombono costi insostenibili. Le cause principali sono la non programmabilità e la difficoltà dell'accumulo in grandi quantità dell'energia prodotta da potenziale eolico e fotovoltaico destinato ad aumentare in modo inverosimile. Eppure, nonostante un acclarato eccesso di capacità di produzione elettrica, si manifesta fin d'ora il problema di come coprire il fabbisogno creato dalla chiusura anticipata di troppi impianti termoelettrici, con ingenti stranded cost da nessuno quantificati, mandati fuori mercato dal privilegio della priorità di dispacciamento concessa agli impianti FER. La soluzione principale indicata dal PNIEC, ben oltre il capacity market, sono gli accumuli.
Ma gli accumuli elettrochimici sono impianti costruiti solo per le emergenze critiche, che nulla hanno a che fare con lo stoccaggio delle enormi quantità di energia elettrica che verranno prodotte, secondo il PNIEC, nel 2030 da FER non programmabili. Basti pensare, tanto per fare un esempio delle dimensioni del problema, che è prevista una produzione da fonte solare di 74,5 TWh. Per produrre con il fotovoltaico una simile quantità di energia, nel 2030 saranno necessari - ipotizzando la stessa produttività del fotovoltaico del 2018 di circa 1.100 ore all'anno (22 TWh prodotte da quasi 20 GW di potenza) - ben 67,7 GW di potenza FV installata (74,5 TWh : 1.100 ore), cioè una potenza, essa sola, superiore del 10% rispetto al picco massimo di domanda elettrica mai registrato in Italia. Che fare allora delle mostruose eccedenze produttive se non regalarle all'estero oppure arrestare di continuo parte della produzione non programmabile? Non è un problema solo italiano. Sappiamo, ad esempio, che in Germania nel 2017 il valore medio delle penali pagate dai TSO è stato di circa 70 euro/MWh per l'energia eolica non ritirata e 310 per il FV.
La maturità tecnologica conclamata dal Professor Rifkin delle celle a combustibile e quella economica dell'idrogeno si sono rivelate due colossali bufale. L'ipotesi dei pompaggi nelle dighe idroelettriche è impercorribile per una serie di motivi, innanzi tutto per banali ragioni di convenienza economica: i sistemi di pompaggio già esistono e già oggi sono largamente sottoutilizzati. Il motivo di questo sottoutilizzo sta proprio in uno degli effetti prodotti dalle FER elettriche non programmabili: il progressivo restringimento dello spread del prezzo dell'elettricità all'ingrosso tra le ore (diurne) di picco e le ore (notturne) di fuori picco ne ha eliminato in gran parte la convenienza. Eppure, nonostante l'evidenza, si insiste con questa ipotesi dei pompaggi. Del resto, senza accumuli, crollerebbe tutto il castello di carta della transizione energetica basata sulle FER elettriche non programmabili. Alla fine sarà forse necessario dedicare l'idroelettrico esistente a funzioni di regolazione, destinando tutto l'idroelettrico a bacino (non incentivato) ad una funzione vassalla di eolico e fotovoltaico (incentivati). Chiarezza e credibilità delle affermazioni nell'odierna politica energetica italiana sembrano passate in secondo piano. Tutto questo controproducente zelo ultra-ortodosso per la tutela del clima globale condurrà inevitabilmente tutti i Paesi europei, come già riconosciuto dall'Olanda, alla creazione di un installato con caratteristiche di alta flessibilità pari all'installato delle fonti rinnovabili non programmabili. Un raddoppio del sistema elettrico, in definitiva, ed una moltiplicazione dei suoi costi. Si dimostra vieppiù che per l'energia non esistono soluzioni semplici e che non aiuta la demagogia delle piazze.
In parallelo al Clean Energy Package, la riproposizione del nucleare a fissione.
Recentemente, un rapporto dell'Agenzia Internazionale dell'Energia (AIE) si è mostrato favorevole al rilancio del nucleare per guidare una transizione energetica più sicura e meno costosa. Secondo l'AIE, senza interventi per invertire la tendenza in atto, nei prossimi 20 anni il contributo del nucleare alla produzione di energia nel mondo crollerà mettendo a rischio gli obiettivi di decarbonizzazione, facendo aumentare i prezzi dell'elettricità e accrescendo in modo significativo complessità e costi della transizione. Forse delusa dalla mancata realizzazione di quella "rinascita nucleare" che aveva profetizzato un decennio fa, l'AIE se ne era da allora disinteressata, spostando il baricentro dei suoi messaggi verso le altre tecnologie low-carbon, in primis nuove rinnovabili (solare ed eolico), ma senza mai rimarcarne i limiti fisici, economici, energetici ed alimentando, in tal modo, il pensiero unico dominante che ritiene che esse possano costituire il principale se non unico strumento per combattere i cambiamenti climatici.
Tutta l'enfasi posta finora sulla decarbonizzazione integrale non porterà quindi solo, inevitabilmente, al rilancio di una tecnologia come il nucleare a fissione che nessuno considerava più, se non altro per motivi di costo, ma anche - e questo è davvero incredibile - ad una sua "remunerazione", parola che si deve leggere intendendola come sussidi pubblici al nucleare "sporco". La realtà, infatti, ha ormai preso il sopravvento sulle puerili illusioni alimentate dai lobbysti delle rinnovabili non programmabili. I singoli Paesi europei, seguendo quanto previsto dalla Commissione europea nelle sue direttive ordoliberiste, hanno finora preso decisioni sulla riduzione della loro capacità di produzione elettrica, come la chiusura di impianti a carbone o nucleari, senza discuterne con gli altri. L'esito finale disastroso è inevitabile. Lo scorso giugno per più volte le grandi industrie tedesche sono state escluse dalla rete elettrica in sovraccarico, onde evitare il collasso sistemico, che è stato scongiurato solo con il soccorso dei Paesi confinanti. Questo soccorso presto non sarà più possibile. La crisi sistemica tedesca si è andata a sommare a quella analoga del gennaio scorso in Francia, durante la quale il Paese transalpino si è trovato a un passo dal blackout.
La situazione è destinata a peggiorare con l'entrata in vigore dei singoli Piani Nazionali Energia e Clima, pretesi dalla Commissione e resi vincolanti dai provvedimenti compulsivi previsti nel Clean Energy Package. Le politiche su ambiente e energia non si possono guardare un obiettivo alla volta, un Paese alla volta - ognuno col suo phase out da annunciare. I tempi appaiono ormai maturi per riconoscere pubblicamente che il re eolico è nudo e che, dopo avere sfregiato l'Europa con decine di migliaia di pale, inutili se non dannose, presto i Paesi europei dovranno chinare la testa accettando anche le centrali atomiche per compensarne la mancanza di modulabilità.
Carbon border tax ed Imea (Imposta sulle emissioni aggiunte).
Per ovviare a questi difetti congeniti - ed in particolare per evitare gli effetti indesiderati e deleteri del carbon leakage - auspichiamo come propedeutica ad ogni iniziativa politica europea in materia di energia l'adozione dell'Imposta sulle emissioni aggiunte (Imea), proposta dalla Professoressa Agime Gerbeti nel suo libro "CO2 nei beni e competitività industriale europea". Tale iniziativa di una nuova fiscalità per le emissioni clima-alteranti è stata sponsorizzata dagli Amici della Terra in tutte le sedi istituzionali, compresa la Commissione Industria del Senato. In questa stessa prospettiva la neo Presidente della Commissione Von der Leyen ha aperto uno spiraglio - con la citazione di una carbon border tax (proprio per contrastare il fenomeno del carbon leakage) già nel suo discorso di insediamento - che va allargato il più rapidamente possibile.
L'Imea mira a valorizzare sull'IVA le reali emissioni di CO2, a prescindere da dove i beni siano stati prodotti, e ambisce a diventare uno standard di produzione sostenibile. A tal fine, l'Imea si propone di incorporare il costo della CO2 nei prodotti attraverso uno schema di fiscalità ambientale valido sia per i prodotti interni che per quelli importati, prendendo come riferimento i migliori benchmark di intensità emissiva nei vari settori di produzione. Non ha infatti alcun senso da un punto di vista ambientale - e industriale - disincentivare le produzioni locali europee a basse emissioni nel confronto di mercato con quelle più inquinanti. Oggi, grazie alle tecniche denominate "blockchain", potrebbe essere possibile tracciare le emissioni di beni complessi e contrastare il fenomeno del carbon leakage, e quindi l'involontario aumento delle emissioni clima-alteranti, attraverso un approccio bottom-up, in contrapposizione al "sistema Kyoto", che invece è il tipico metodo top-down, deciso dall'alto e imposto alla base.
La realizzazione di questo schema potrebbe spalancare le porte ad un nuovo paradigma: lo spostamento della tassazione da chi produce ricchezza collettiva a chi consuma risorse comuni non riproducibili. L'applicazione dell'efficienza energetica delle best practice europee (o anche semplicemente l'applicazione dell'efficienza energetica italiana, che eccelle nel mondo) permetterebbe di raggiungere risultati migliori, nel contenimento delle emissioni carboniche, di quelli previsti con i metodi utopistici e velleitari suggeriti dalle varie COP dell'ONU, da cui derivano direttamente i rigidissimi - ed inefficaci per ridurre le emissioni globali - regolamenti ordoliberisti della Commissione Ue.
Conclusioni e suggerimenti.
Il problema della decarbonizzazione è arduo, costoso e ultra complesso; in corrispondenza, l'orizzonte tecnologico, al pari di quello politico, è in continua e tumultuosa evoluzione.
Dobbiamo perciò evitare di ipotecare il futuro dell'economia nazionale, già altamente regolamentata e compressa, con ulteriori vincoli, visto che il debito residuo acquisito in incentivi alle FER elettriche ammonta a quasi 120 miliardi fin oltre il 2031. Ulteriori errori dettati dalla fretta o dall'ideologia alla moda sarebbero esiziali per il Paese e niente affatto risolutivi per i cambiamenti climatici.
In particolare riteniamo compito precipuo del Parlamento evitare che tali enormi costi continuino ad essere celati nelle bollette elettriche di tutti gli italiani, anzichè essere palesati e portati a carico della fiscalità generale.
Consideriamo miope e del tutto inadatto alla bisogna puntare la gran parte delle scarse risorse a disposizione sull'installazione di altro potenziale elettrico da quelle fonti rinnovabili non programmabili quali oggi le conosciamo. Siamo perciò convinti che si debba rinunciare a sussidiare ulteriormente le FER elettriche non programmabili non solo per l'impatto paesaggistico, ma anche per i costi derivanti delle criticità ancora presenti sul fronte accumuli. In attesa di sviluppi - che riteniamo improbabili - in questo campo, siamo disposti a tollerare quote di fotovoltaico destinate all'autoproduzione e collocate in aree non di pregio.
Richiediamo invece, come raccomandato dal Professor Davide Tabarelli di Nomisma Energia, "azioni immediate e concrete, lontano dall'assordante rumore dei grandi summit, dove l'esigenza della politica di unire inevitabilmente porta a decisioni ambiziose, spesso irrealistiche, il cui rischio, però, è creare confusione e allontanare, invece di avvicinare, gli obiettivi".
Proponiamo quindi di abbandonare, d'accordo con l'Unione Europea, il sotto-obiettivo della produzione di energia da FER sui consumi finali di energia e di intraprendere piuttosto un piano di investimenti finalizzati sotto il controllo dell'Unione Europea, cogliendo l'occasione di combinare una classica politica keynesiana con il conseguimento di obiettivi climatici globali, sia in materia di contrasto che di mitigazione.
Questa sfida per il futuro richiede l'utilizzo di strumenti e strategie a cui da tempo l'Europa pare avere rinunciato. Da troppi anni gli investimenti pubblici in Europa sono fermi sotto le medie di qualunque altra parte del mondo. A tutti i Paesi europei dovrebbe essere consentito fino al 2030 - ma evitando l'utilizzo di strumenti uguali per tutti, senza tener conto delle specificità di ogni singolo Paese - uno sforamento ampio dei deficit pubblici (che reputiamo dover essere non inferiore al 2% annuo del PIL per essere minimamente credibile), meglio se finanziato con bond europei ad hoc, così da poter destinare risorse aggiuntive ad un piano di investimenti pubblici ad alto moltiplicatore non solo del PIL ma anche del contenimento globale delle emissioni di CO2.
Ambiente e crescita non sono in contrapposizione; proprio lo sviluppo economico, anzi, porta con sè, oltre alle possibilità di accedere a condizioni di vita migliori, un imprescindibile slancio verso la ricerca tecnologica, anche per la soluzione dei problemi che via via si presentano. In questo caso si tratterebbe semmai di parlare di sviluppo da re-indirizzare, sulla base delle nostre peculiarità storiche, privilegiando con la massima determinazione e con i finanziamenti, al posto di queste tecnologie di importazione estera come le pale eoliche e i pannelli fotovoltaici, le potenzialità economiche nazionali, come il settore meccanico, metalmeccanico e termo- idraulico, il mini geotermico e l'edilizia. Non sono velleitarismi. E' la scelta del "piccolo", del "compatibile" e dell' "umano". In una parola: dell' "italiano". I nostri fari devono costantemente essere, assieme, il progresso e la nostra cultura. Non vogliamo essere "i primi della classe" nelle rinnovabili elettriche, come si vanta la SEN; primi della classe lo siamo già nell'efficienza energetica, come risulta da vari rapporti internazionali.
Oltre all'adozione in tutti i settori delle best practice di efficienza energetica, agli investimenti nel trasporto pubblico, alla messa in sicurezza del territorio e, soprattutto, ad un impegno senza precedenti su ricerca e sviluppo, indichiamo come prioritari per l'Italia:
- L'adozione dell'Imposta sulle Emissioni Aggiunte (IMEA) proposta dalla Professoressa Gerbeti - la cui elaborazione teorica deve essere ancora affinata - o di un'altra imposta pigouviana per valorizzare sull'IVA le reali emissioni di CO2 incorporate in tutti i beni e servizi consumati (non prodotti) in Europa.
- La manutenzione straordinaria delle dighe esistenti e l'abolizione degli usi concorrenti alla produzione elettrica, a parte il deflusso minimo vitale, che dovrebbero essere a carico di altri invasi, in gran parte da realizzare, riservando l'acqua dei bacini con impianti idroelettrici alla sola produzione di elettricità. I nuovi invasi destinati ad altri usi, e quindi senza necessità di salti, si potrebbero ricavare con maggiore facilità in piano, con opere civili enormemente meno costose, purchè in aree morfologicamente adeguate.
- La moltiplicazione delle risorse europee destinate allo sviluppo delle tecnologie del nucleare a fusione.
- La realizzazione delle "autostrade digitali", con infrastrutture adeguate e la conseguente diffusione del "telelavoro", a cui la pubblica amministrazione dovrebbe dare l'esempio. Ciò sarebbe utile per il recupero della produttività mancata finora, per ridurre gli spostamenti, il pendolarismo e quindi il consumo di combustibile, per costruire un nuovo modello di sviluppo diffuso sul territorio, per evitare ulteriori degenerazioni dell'urbanesimo eccetera.
- Essendo irrilevante su scala mondiale il contributo dell'Italia alla riduzione della CO2 (procuriamo lo 0,9% delle emissioni globali), e visto che il nostro Paese non può prescindere dall'industria, dovremmo piuttosto concentrarci sul know-how correlato, da vendere nel mondo. Tenendo presente che un euro investito in Paesi le cui produzioni hanno un'alta intensità carbonica ha un'efficacia maggiore di uno investito in Europa, questo trasferimento del know-how italiano andrebbe realizzato incentivando le aziende che operano all'estero nei settori maggiormente in grado di ridurre le emissioni clima-alteranti.
Confidando che il Parlamento della Repubblica voglia valutare le argomentazioni nostre e di una parte importante dell'ambientalismo che ha a cuore il futuro del pianeta ma anche la salvaguardia del territorio e la conservazione del paesaggio italiani, restiamo a disposizione per qualsiasi approfondimento.
Comitato Nazionale per il Paesaggio