Dopo averla (giustamente) schernita in passato, il Premier inglese Boris Johnson ha repentinamente trasformato l'energia eolica nella pietra filosofale della traballante economia britannica. Sarà stata l'eccessiva esposizione ai forti venti, comuni nei mari settentrionali ma che possono provocare gravi disturbi neurovegetativi. Oppure la rappresaglia dei cinesi che, sospendendo la collaborazione nella costruzione delle centrali nucleari inglesi, gli vogliono fare pagare l'ostilità della sua politica estera nei loro confronti lasciandolo in braghe di tela. Oppure ancora, e più probabilmente, sarà stato il desiderio di compiacere un'opinione pubblica britannica regredita, quasi come quella dell'Europa continentale (fortunatamente solo quella occidentale), ad un livello infantile dall'operazione mediatica "Piccola Greta", fatto sta che il primo ministro di Sua Maestà Britannica ha cambiato parere sull'eolico. Per fortuna l'idea di trasformare la Gran Bretagna nell'Arabia Saudita del vento è stato un boccone troppo grosso da mandare giù. Anche per il compassato quotidiano londinese TheTimes, simbolo stesso dell'understatement proprio dell'Inghilterra più tradizionale. Nella sua ultima edizione domenicale (The Sunday Times), un articolo a firma Dominic Lawson dal titolo "The energy answer is not blowin' in the wind" non solo sbeffeggia Boris Johnson (e l'incolpevole Bob Dylan), ma è anche un massacro che non risparmia nessun sostenitore dell'eolico e che non fa prigionieri. Questa volta dedichiamo la nostra traduzione (qui sotto) dei passaggi più significativi dell'articolo (che potrete leggere, pagando una piccola somma di denaro, in lingua originale e nella sua interezza nel sito del Times riservato agli abbonati) a chi ritiene che noi della Rete della Resistenza sui Crinali siamo troppo duri nei nostri giudizi sull'eolico ed a chi (e sono moltissimi) crede che ne stiamo esagerando le ineluttabili, nefaste conseguenze.
The energy answer is not blowin' in the wind
La corsa verso la decarbonizzazione integrale della rete elettrica danneggerà proprio coloro ai quali l'inquilino di Downing Street si era impegnato ad assegnare la massima priorità
(riduzione dell'articolo di Dominic Lawson a pagina 20 del Sunday Times del 10 gennaio 2021)
Pensate che le politiche del governo sul Covid-19 siano state confuse e contraddittorie? Comparate a quelle che sta perseguendo nel campo dell'energia e dell'industria, queste politiche sono state un modello di buon senso e rigore intellettuale. Ma mentre le manchevolezze nelle prime vengono rilevate in poche settimane, nelle cifre della mortalità, i difetti nella politica energetica impiegano anni ad emergere - quando ormai i politici responsabili si sono comodamente ritirati dalle scene.
Eppure soffiano già venticelli premonitori. Per così dire. La scorsa settimana - come non è inusuale in un gennaio britannico - le temperature sono scese sotto lo zero, mentre anche la velocità dei venti è diminuita. Risultato? Per citare l'edizione di martedì del The Guardian: "I prezzi del mercato dell'elettricità sono decuplicati in un giorno, raggiungendo un livello record di 1.000 sterline al Megawattora... le turbine eoliche si sono virtualmente arrestate appena poche settimane dopo aver stabilito un nuovo record di produzione." Secondo un operatore di mercato citato nell'articolo, il Regno Unito "quest'inverno corre rischi di blackout molto superiori rispetto a quanto il gestore della rete elettrica nazionale abbia previsto".
E' l'energia eolica su cui il governo ha puntato per il futuro energetico di questo Paese. Boris Johnson ha millantato in modo assurdo che saremmo diventati l' "Arabia Saudita del vento", apparentemente ignaro del fatto che i sauditi si sono arricchiti perché erano in grado di esportare il loro petrolio globalmente e con ampi margini di profitto. L'effetto della nostra crescente dipendenza dal vento di casa nostra non farà che aumentare le probabilità di quella sorta di panico di Borsa (elettrica) a cui abbiamo assistito la scorsa settimana - e di blackout.
Tutto questo era stato esposto con dolorosa chiarezza dall'ex primo consigliere scientifico del governo, il Professor David McKay nel 2016, 11 giorni prima di morire: "Siccome il tempo a disposizione si sta assottigliando, devo dire pane al pane e vino al vino... C'è questa spaventosa illusione tra la gente che noi possiamo prendere tutta questa roba (le rinnovabili) e, semplicemente, aumentarla di numero, e, se c'è qualche piccolo problema di resa addizionale, possiamo, altrettanto semplicemente, limitarci a fare un po' di efficienza energetica. Il genere umano avrebbe davvero bisogno di prestare attenzione all'aritmetica e alle leggi della fisica."
Ci sarebbero anche le leggi dell'economia. Lanciando il suo piano in dieci punti per una "rivoluzione industriale green" (ce ne sono sempre 10 perché i primi ministri pensano di essere Mosé), Johnson ha promesso una "ripresa green con lavori altamente qualificati e ben retribuiti", ed ha anche fornito numeri precisi: 60.000 nuovi posti di lavoro nell'eolico offshore, ad esempio. Come ha osservato Jonathan Ford del Financial Times: "Secondo il gestore della rete elettrica nazionale, il costo totale... per giungere alla decarbonizzazione integrale è nell'ordine schiacciante di 160 miliardi di sterline all'anno per i prossimi tre decenni. E' difficile immaginare che ciò non creerebbe qualche posto di lavoro via via che si procede lungo questa strada... Ma da dove dovrebbero arrivare tutti questi lavoratori? Molto probabilmente distogliendo persone da altre attività più redditizie." Come quelle non sussidiate dal contribuente, o dagli utenti dell'energia sotto forma di bollette molto più alte - che sono una forma di impoverimento, non di arricchimento.
Le persone che soffriranno di più da questo equivalente, per il nostro governo, dei piani quinquennali sovietici (che avevano suppergiù la stessa sensatezza economica) sono precisamente quelle stesse su cui l'attuale governo ha fatto affidamento per la sua vittoria alle elezioni del 2019 - e le cui antiche fortune si era impegnato a ripristinare. La scorsa settimana il think tank Onward, in un rapporto a firma di due ex ministri, uno laburista ed uno conservatore, ha evidenziato che dei "10 milioni di posti di lavoro" minacciati dall'impegno del governo di troncare le emissioni di anidride carbonica del Regno Unito entro il 2050, la maggiore concentrazione si trova di gran lunga nei collegi elettorali un tempo ad altissima composizione operaia che hanno dato fiducia a Johnson.
Tale rapporto sosteneva il piano di decarbonizzazione integrale con sincera compartecipazione. Osservava semplicemente che il risultato sarebbe stato che "il cuore industriale e manifatturiero del Paese, nelle Midlands e nel Nord, è verosimilmente destinato a sperimentare molte e di gran lunga più gravi discontinuità economiche, durante la transizione verso la decarbonizzazione integrale, rispetto al Sud-est ed a Londra... Il fatto che molti di questi luoghi siano già stati più pesantemente colpiti dalla deindustrializzazione degli anni 80 e 90 accentua il problema." Eccome! Qui non si tratterebbe tanto di "farli salire allo stesso livello degli altri" quanto piuttosto di spingerli ancor di più verso il fondo e poi tener loro la testa sott'acqua.
Le azioni condotte fino ad oggi dai governi britannici per aggiungere energia decarbonizzata più costosa alle bollette degli utenti industriali non ha solo proseguito lungo il percorso della nostra deindustrializzazione ma, in realtà, ha anche provocato l'aumento e non la diminuzione delle emissioni globali. La produzione manifatturiera è stata delocalizzata soprattutto in Cina, il cui utilizzo del carbone è più intenso che quello di un qualsiasi Paese europeo. Come sostiene Dieter Helm, professore di politica dell'energia a Oxford: "La storia degli ultimi 20 anni ci racconta che in Europa abbiamo deindustrializzato e che abbiamo scambiato la produzione interna con le importazioni, così che, anche se sembra il contrario, (le nostre politiche) hanno aumentato il riscaldamento globale." Meraviglioso. Continuate così, ragazzi! Ricordatevi solo di spegnere le luci quando andrete via. Sempre ammesso, in primo luogo, che abbiate potuto permettervi di tenerle ancora accese.
Tutto ciò, anche nella migliore delle ipotesi, per ridurre la temperatura globale media di un pressoché incommensurabile piccolo ammontare - dato che le emissioni del Regno Unito sono solo attorno all'uno per cento del totale del pianeta, una proporzione che in ogni caso sta precipitando, stante l'aumento incontrollato di quelle di Cina ed India.
Ed i governi britannici rimarranno proni a Greta Thunberg quando gli elettori comprenderanno che cosa queste politiche significano per loro personalmente?
Il fatto che - da sempre dopo le proteste del 2000 per il prezzo del carburante - nessun ministro delle Finanze britannico abbia mai osato reintrodurre la scala mobile sul prezzo del carburante ci dice molto su quello che capita quando, in una democrazia, l'ideologia si accoppia con la resistenza pubblica.
Ciò potrebbe anche spiegare un'altra cosa che è accaduta (nell'assoluto silenzio) la scorsa settimana. Il governo ha deciso di permettere lo sviluppo della prima nuova miniera di carbone in sotterraneo del Paese da 30 anni. Il pozzo sarà scavato nel collegio elettorale cumbriano di Copeland, una di quelle vecchie roccaforti laburiste che hanno però cambiato colore politico... La miniera creerà circa 500 posti di lavoro in loco e fornirà il carbon coke indispensabile per gli altoforni di ciò che rimane dell'industria siderurgica del Paese a Scunthorpe e Port Talbot. Siccome l'alternativa sarebbe importare il carbone, probabilmente dalla Russia o dall'Australia, ciò è in sommo grado razionale così come è altrettanto vantaggioso dal punto politico.
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Comunque, il governo sembra davvero seriamente intenzionato a spendere ben oltre mille miliardi di sterline per rendere il Paese meno produttivo e perciò più povero, pur senza nessun percettibile beneficio in termini di clima globale futuro. A parte ciò, tutto sembra molto sensato.
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