Crisi energetica. Nazionalizzare i gruppi e guidare la transizione.

"Crisi energetica. Nazionalizzare i gruppi e guidare la transizione. Parigi l'ha capito, Roma si sveglierà?"

 

L'articolo del giorno. Rassegna stampa per i resistenti sui crinali a cura di Alberto Cuppini.

 

Sul Fatto Quotidiano di oggi, nascosto in una remota pagina interna, abbiamo scovato l'articolo di Giuliano Garavini che abbiamo scelto per la nostra edicola quotidiana.

Garavini, che è un fine analista di evidenti radici marxiste nonostante l'ancor giovane età, è arrivato, percorrendo tutt'altra via, alla stessa nostra inevitabile conclusione: il sistema elettrico italiano deve essere (ri) nazionalizzato.

Anzi. Meglio ancora: tutte le società energetiche italiane ("che, mentre i cittadini annaspano per pagare le bollette, hanno accumulato rendite gigantesche") devono essere nazionalizzate.

Il motivo, secondo Garavini, è duplice: la necessità di abbandonare le fonti fossili e l'urgenza di tagliare il cordone ombelicale con la Russia. Garavini, però, individua la nazionalizzazione solo come inevitabile tappa verso il fine ultimo della "transizione energetica", che per i nostalgici del comunismo dovrebbe innescare la distruzione del capitalismo e una nuova palingenesi, analoga a quella vaticinata da Marx e Engels. Ma se con la distruzione del capitalismo, almeno in Europa grazie ai forsennati pianificatori dell'European green deal, sembriamo bene avviati, ben più arduo è individuare nel mondo nuovo della Piccola Greta il futuro dell'Umanità.

Secondo noi, invece, la nazionalizzazione del sistema energetico deve avvenire come reazione alle conseguenze disastrose delle privatizzazioni degli anni Novanta e per disporre di nuove, immense risorse pubbliche per condurre la lotta ai cambiamenti climatici con azioni di contrasto, mitigazione e adattamento, in direzione completamente opposta alla "transizione energetica" basata su pale e pannelli, di evidente ispirazione ordo-liberista, pretesa dai neo-mercantilisti tedeschi.

Le privatizzazioni in Italia hanno certamente permesso enormi recuperi di efficienza, ma questi si sono tradotti in maggiori profitti per le società privatizzate, sempre più disinteressate all'interesse nazionale e ai destini del Paese, e in maggiori costi per gli utenti.

"L'unico Paese Ue che sembra essersi accorto della portata della sfida, scrive Garavini, è la Francia di Macron. Il Presidente francese ha parlato di "volontà di pianificazione", affermando che "dobbiamo riprendere il controllo capitalistico di vari attori industriali". Pensa in primo luogo ad EDF... L'idea è che la sua definitiva nazionalizzazione consentirebbe di finanziare investimenti a lungo termine nel nucleare a costi bassissimi, grazie alla garanzia statale, permettendo di offrire energia "pulita" ai francesi a prezzi contenuti."

Macron ragiona dunque lungo un percorso logico assai più simile al nostro. C'è però un particolare ostativo. Anzi: ci sono, allo stato, insormontabili difficoltà per la nazionalizzazione. Intanto la legislazione dell'Ue che vieta esplicitamente certe operazioni. In secondo luogo il potere delle lobby dell'energia che - lo constatiamo tutti i giorni tenendo d'occhio quella dei rinnovabilisti - sono ormai gli onnipotenti boiardi della politica italiana.

E' ovvio che, per percorrere la via della nazionalizzazione, dovrà prima succedere qualcosa. Uno sbrago, come amava definirlo il compianto professor Miglio. Mussolini (e stiamo parlando di un presidente del Consiglio dotato (dotatosi) di poteri esecutivi ben superiori agli attuali) nel 1933 potè creare l'IRI (perchè è di questo che stiamo parlando per l'Italia: una nuova IRI per l'energia) in seguito agli effetti disastrosi sull'economia della Grande Depressione, che aveva fatto grippare il sistema capitalistico mondiale (oggi si direbbe: globale). Direi che, sotto punto di vista, ormai ci dovremmo essere. Mancherebbe un Mussolini, certo, però non si sa mai.

Oppure dovrebbe succedere qualcosa di molto peggio. Il padre di Giuliano, Sergio Garavini (uno degli ultimi giapponesi rimasti a guardia dell'isola del comunismo dopo la sua fine) glielo avrebbe spiegato. I dirigenti del vecchio PCI, a differenza di quelli dell'attuale partito che ne ha raccolto l'eredità politica, erano tenuti a conoscere la storia. Sapevano che l'Unione Sovietica era diventata una potenza politica, industriale e militare in grado di esportare il comunismo in tutto il mondo non con il buonismo e le "energie pulite" ma con spietati piani quinquennale per produrre petrolio, acciaio e cemento in quantità enormi senza alcun rispetto nè per gli uomini nè tanto meno per l'ambiente. Garavini senior gli avrebbe anche raccontato che nel 1918 Lenin aveva assunto i drastici provvedimenti economici nella Russia postrivoluzionaria conosciuti come "comunismo di guerra" in una situazione resa drammatica non solo dalle conseguenze della guerra ma anche per la guerra civile in corso.

Il primo provvedimento del comunismo di guerra fu la nazionalizzazione dell'energia dell'Unione Sovietica. Contrariamente alle nazionalizzazioni avvenute in seguito in Italia, essa avvenne senza alcun risarcimento a quelli che oggi amano definirsi "stakeholders". Anzi gli "stakeholders" delle aziende energetiche (o almeno quelli che non riuscirono a lasciare la Russia in tempo) vennero avviati, lungo quelli che oggi vengono chiamati dai russi in Ucraina "corridoi umanitari", in Siberia.