Nella prima parte abbiamo visto come la coltivazione di depositi minerali sul fondo marino preveda sfide tecnologiche di assoluto rilievo: dal trasporto del minerale tramite un meccanismo di sollevamento fino in superficie per anche sei chilometri di colonna d'acqua oltre alla movimentazione delle attrezzature sulla piattaforma mineraria in condizioni operative estreme come quelle che si riscontrano a profondità comprese tra uno e sei chilometri: altissime pressioni, da 100 a 500 bar, basse temperature e forze fisiche come le correnti, le onde e le condizioni climatiche, ad una distanza dalla costa, spesso superiore a 1.000 chilometri.
Questo comporta pesanti implicazioni sulle metodologie estrattive e sui requisiti tecnologici: è’ necessario disporre di un sito di stoccaggio per i minerali, poiché i siti per il trattamento si trovano grandi distanze, tra 2.000 e 6.000 chilometri, con un tempo di viaggio dai cinque ai quindici giorni oltre al tempo di carico e scarico (per minerali, ricambi, carburante, manodopera e provviste) durante ogni visita alla piattaforma mineraria.
Tuttavia, la vera sfida risiede nell'applicazione ed integrazione di nuove tecnologie, come rilevamento tridimensionale, navigazione autonoma, manipolatori robotici, facendole funzionare a pieno regime ininterrottamente per 300 giorni all'anno in condizioni estreme dai fattori meteorologici, precipitazioni, venti, cicloni alle condizioni idrografiche (alta pressione, bassa temperatura, correnti, mancanza di luce naturale) operando in un ambiente, il fondale marino, la cui topografia è spesso frastagliata con uno spessore e una compattezza dei sedimenti variabili ed una distribuzione eterogenea dei depositi.
Tuttavia proprio per queste ragioni la prospettiva dell'estrazione mineraria in alto mare è stata accolta con severi avvertimenti da parte di scienziati ed importanti ambientalisti, che hanno evidenziato il rischio di danni irreversibili agli ecosistemi, parte dei quali non siamo ancora in grado di comprendere compiutamente. La certezza che a qualsiasi scala l'estrazione sul fondo marino esaurirà sistematicamente risorse, disturberà, danneggerà o rimuoverà elementi strutturali degli ecosistemi, causerà la perdita di biodiversità e dei servizi ecosistemici sta acquisendo un consenso crescente tra gli scienziati marini. L'entità del danno potenziale è difficile da prevedere perché la nostra comprensione del biota marino di acque profonde rimane limitata. È anche sconosciuta la misura in cui un ecosistema si riprenderà quando cesserà l'attività mineraria e in quali tempi.
Le conseguenze ecologiche per la biodiversità del mare profondo sono sconosciute ma saranno di carattere intergenerazionale.
Enormi parti del fondale marino, oltre 1,5 milioni di chilometri quadrati, sono già state autorizzate per la prospezione mineraria, molti delle quali in aree con alto valore di biodiversità. Una recente analisi scientifica[1] dimostra che la perdita di biodiversità dall'estrazione in acque profonde sarà inevitabile.
Macchine minerarie telecomandate in movimento, perforazioni e frese meccaniche inevitabilmente causeranno danni fisici diretti al fondale marino e perdita di biodiversità, rischiando l'estinzione di specie endemiche che potrebbero non riprendersi mai dopo la distruzione del loro habitat. E’ probabile che la maggior parte dei danni arrecati duri per sempre su scale temporali umane, dati i tassi naturali di recupero molto lenti negli ecosistemi colpiti.
Esistono differenze rilevanti sulle tecniche estrattive ed i conseguenti impatti delle tipologie di depositi presenti. Sicuramente le attività minerarie presso i camini idrotermali comportano un rischio elevato per la vita marina che vi prospera: circa l'85% delle specie endemiche che non si trovano da nessun altro luogo nei nostri oceani. Tale è la loro biodiversità che gli scienziati sono stati in grado di descrivere una media di due nuove specie per ogni mese nei 25 anni dalla loro scoperta, compresi i vermi tubicoli (Riftia pachyptila) che crescono fino a 2,4 metri di lunghezza ed il granchio yeti (Kiwa hirsuta) che vive a una profondità di 2.600 m attorno alle sorgenti idrotermali nell'Oceano Antartico
Gli scienziati hanno avvertito che in quanto habitat rari a livello globale, le sorgenti idrotermali dovrebbero essere protette, specialmente alla luce dei nostri bassi livelli di comprensione delle caratteristiche della vita marina nelle loro prossimità. Anche ricercatori di settori della medicina hanno evidenziato come l’attività mineraria potrebbe interferire con le risorse genetiche marine che si trovato nell'oceano profondo compromettendo il loro potenziale uso nei medicinali come nuovi antibiotici o farmaci per combattere il cancro.
Una macchina da miniera con una fresa per fondali marini. Il peso è stimato in circa 300 tonnellate. Fonte: Nautilus Minerals Inc.
Nonostante la crescente preoccupazione per gli impatti dell'attività mineraria nei fondali marini, la conoscenza degli effetti derivanti dallo loro sfruttamento sugli ecosistemi non è stata compiutamente analizzata e spesso gli studi non sono supportati prove empiriche degli impatti complessivi. La priorità pertanto è la stima analitica degli impatti sugli ecosistemi prima dell'inizio delle attività estrattive ed a tal fine è necessario superare l’attuale incertezza derivante dalla scarsità di dati.
È probabile che gli impatti siano aggravati dalla connessione dei sistemi oceanici e dal ruolo centrale dell'oceano nei processi atmosferici su larga scala. Le specie di acque profonde sono intrinsecamente vulnerabili ai cambiamenti ambientali e le loro caratteristiche: una maggiore longevità, tassi di crescita lenti, riproduzione in età avanzata e bassa fecondità significano che molte specie degli oceani profondi hanno una maggiore sensibilità alle attività umane.
Proprio le lacune nella conoscenza hanno portato i ricercatori a sollecitare cautela e ad adottare un approccio precauzionale che preveda una moratoria di 10 anni sulle attività minerarie al fine di disporre di certezze scientifiche.
La perdita di habitat e degli organismi del fondo marino.
Precedentemente abbiamo visto come ci siano metodi di estrazione, come nel caso dei solfuri polimetallici, che possono essere paragonabili all'estrazione a terra richiedendo scavi massicci e la rimozione del substrato ma va considerato anche il potenziale rischio di smottamenti sottomarini attraverso la destabilizzazione dei sedimenti dovuto alle grandi superfici interessate dall'estrazione di noduli. Pertanto l'alterazione della topografia, dei substrati e delle caratteristiche fisiche del fondo marino cambierà i flussi e le caratteristiche fisiche della dinamica energetica dell'oceano su scala sia locale che continentale.
Ciò a sua volta altererà l'idoneità degli habitat di nicchia creatisi nel corso dei millenni consentendo alle comunità ed agli ecosistemi di evolversi nei fondali marini e la loro rimozione interromperà o rimuoverà le comunità cambiando le proprietà fisiche e chimiche adatte a questi organismi. Il cambiamento nelle caratteristiche dei fondali marini potrebbe interrompere questi ecosistemi su scale temporali evolutive.
La rimozione dei substrati bentonici comporterà la perdita dell'habitat di specie come polpi, pesci, crinoidi più grandi e coralli che si trovano, ad esempio, all'interno di aree con noduli di manganese nel Pacifico settentrionale e meridionale. Le aree dove sono presenti i noduli polimetallici presentano una maggiore diversità e densità di forme bentoniche viventi sopra l'interfaccia acqua-sedimento (taxa epifaunali) rispetto alle altre evidenziando l'importanza dei noduli nel mantenimento della biodiversità epifaunale nella zona di Clarion Clipperton (CCZ).
Depositi di solfuri polimetallici come questi contengono importanti quantità di rame,zinco, oro ed argento. ©Nautilus Minerals
Rilascio di sostanze tossiche e metalli.
L'estrazione di solfuri polimetallici esporrà le superfici dei minerali di solfuro movimentati durante le operazioni di scavo all'acqua di mare, con il risultato di innescare l'ossidazione di questi solfuri e il rilascio di metalli pesanti. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che metalli come il ferro, rame e zinco, i componenti principali, ma non i soli, dei solfuri presenti possono essere rilasciati rapidamente nell'acqua. Le reazioni tra diversi minerali di solfuro hanno evidenziato la dissoluzione preferenziale di solfuri di ferro e rame con gli esiti di un rilascio continuativo di rame con implicazioni per la salute dell'ecosistema attraverso il bioaccumulo e distruzione e perdita di funzionalità delle cellule e degli organismi.
Per i noduli polimetallici e le croste di ferro-manganese è probabile che gli effetti siano minori ma non è ancora noto se ci saranno effetti tossici dall'estrazione mineraria in queste aree.
I metalli rilasciati si trovano in stati fisici diversi: possono entrare nella soluzione / fase acquosa ed essere assorbita attraverso le branchie, la parete del corpo e il tratto digerente degli animali esposti o alternativamente, possono adsorbirsi su particelle di sedimenti o flocculati ed essere ingeriti e questa è un’ipotesi estremamente realistica per i metalli rilasciati durante la disidratazione del liquame minerale.
Lo sfruttamento di una concessione continuerà per anni o decenni e gli organismi saranno soggetti ad esposizioni ai metalli che si cronicizzeranno e che potrebbero essere ordini di grandezza rilevanti, seppur inferiori alla dose letale, anche ad una distanza considerevole dal sito coltivato: questo obbligherebbe a introdurre percorsi di disintossicazione in risposta all'esposizione al metallo.
Per tutti tre i tipi di mineralizzazioni c'è il rischio che il processo di estrazione, durante la fase di pompaggio dal fondo marino alla superficie, rilasci ioni metallici nella colonna d'acqua o nella scia bentonica creata dai veicoli minerari o, a seguito della disidratazione sulla nave di superficie, in una scia a mezz'acqua. Queste scie possono potenzialmente viaggiare su distanze da centinaia a migliaia di chilometri quadrati, portando con sé sostanze tossiche. Una scia a mezz'acqua può influire sulla fotosintesi delle microalghe o sugli animali all'interno della colonna d'acqua.
I ricercatori del progetto MIDAS (Managing Impacts of Deep Sea Resource Exploitation) un consorzio di 32 università, istituti di ricerca e società minerarie che tra il 2013 e il 2016 hanno condotto un'indagine scientifica approfondita sulle potenziali conseguenze dell'estrazione nei fondali marini hanno evidenziato l'impossibilità di identificare precisi limiti di tossicità per gli organismi marini batiali e abissali esposti ai metalli a seguito delle attività estrattive. La complessità è legata alla dipendenza della tossicità dalle condizioni di temperatura e pressione, dal fatto che i minerali rappresentano miscele complesse di ioni metallici in diversi stati di ossidazione che saranno alterati in modo differenziale e la complessità delle comunità biologiche interessate e i loro stati fisiologici al momento dell’interazione: questi sono i motivi per cui qualsiasi "limite di tossicità" proposto difficilmente sarà preciso.
Il prototipo di una macchina per l'estrazione dei noduli polimetallici. Credit: DeepGreen Metals.
Inoltre non è possibile applicare i limiti e le soglie tossicologiche attuali da contesti di acque terrestri poiché la pressione e la temperatura giocano un ruolo fondamentale nella chimica degli oceani. Inoltre i dati esistenti sulla tossicità generalmente si basano su un singolo metallo presentato in un unico stato di ossidazione mentre qui ci troviamo in presenza di miscele complesse di metalli che sono specifiche per ciascuna area coltivata e soggette ai cambiamenti de gli agenti atmosferici chimici. Potrebbe quindi essere impossibile determinare in laboratorio l'esatto potenziale tossico di un deposito minerale su singoli metalli, o anche miscele metalliche rendendo pertanto necessario valutare la tossicità dei singoli depositi minerali in modo indipendente per identificare il potenziale rischio tossico durante l'estrazione oppure più semplicemente determinare attraverso rigidi controlli la tossicità letale alla rinfusa di ciascun deposito di minerale per un numero significativo di organismi biologici campione in fasi fisiche rilevanti ed analogamente si potrebbero controllare le eventuali acque di ritorno dalla superficie a seguito della disidratazione dei minerali prima che avvenga qualsiasi scarico nell'oceano.
Risulta comunque evidente, da queste considerazioni, che senza studi approfonditi, quindi in tempi non brevi, sarà impossibile effettuare qualsiasi attività senza mettere a rischio l’esistenza della vita biologica dei fondali marini, solo di recente la rivista NATURE ha pubblicato i risultati di una spedizione scientifica multidisciplinare del 2015 nelle acque circostanti le Isole Galapagos a profondità di oltre 3.300 metri dove sono state scoperte ed identificate trenta nuove specie di invertebrati bentonici. Questa caratterizzazione della megafauna invertebrata bentonica delle Galapagos è stata possibile perché effettuata nelle acque protette della Riserva Marina ma va tenuta in considerazione la prossimità geografica del bacino del Perù (Perù basin) caratterizzato da importanti depositi di noduli polimetallici: per quanto esposto e per quanto vedremo sugli impatti delle scie di sterili, risulta evidente il concreto rischio di inquinamento di quest’area qualora venissero avviate attività minerarie.
Gli impatti delle scie.
Le scie rappresentano forse la fonte potenziale più significativa di impatto ambientale: essenzialmente trasportano particelle del materiale di sedimentazione dai siti estrattivi direttamente alle aree adiacenti in base alle correnti prevalenti ed alle turbolenze della colonna d'acqua sovrastante. Gli impatti possono derivare da alte concentrazioni di particelle all'interno della colonna d'acqua o dalla tossicità del materiale, ma le soglie alle quali questi fattori portano a un impatto significativo sono poco conosciute.
Le correnti profonde dei fondali sono intrinsecamente complesse e variabili, quindi la loro comprensione è essenziale per essere in grado di prevedere il comportamento delle scie causate dalle attività minerarie e, considerando che non saranno visibili sulla superficie dell'oceano, essendo contenute dalla stratificazione degli oceani determinata dal contrasto tra le acque profonde e fredde e quelle superficiali e calde, risulterà complesso mappare in modo significativo in tre dimensioni il loro moto, strumento vitale per una comprensione e previsione del loro comportamento e un apprezzamento dei limiti delle assunzioni intrinseche.
Gli impatti dei sedimenti possono essere trasportati a enormi distanze dalla sorgente. In termini generali, il mare profondo è un ambiente a bassa energia con velocità notevolmente inferiori a quelle più vicine alla superficie dell'oceano ma con scale di variabilità brevi poichè la topografia del fondale è causa della complessità nel modello di correnti e turbolenze. Inoltre mentre la topografia fornisce un'influenza locale esistono flussi, come correnti e vortici, che possono risentire di variazioni di condizioni generate a migliaia di chilometri di distanza dal sito perché la circolazione profonda delle correnti oceaniche è ancora qualcosa di non compiutamente esplorato. Pertanto gli impatti dei sedimenti possono variare a causa della velocità di deposizione e della dimensione delle particelle, quelle di dimensioni maggiori tenderanno a depositarsi in prossimità del sito mentre le particelle fini possono disperdersi anche a grandi distanze.
Il ciclo del carbonio.
Gli oceani giocano un ruolo centrale nella regolazione del clima terrestre e nella mitigazione del cambiamento climatico servendo come un importante dissipatore di calore e carbonio. Il carbonio viene sequestrato attraverso processi biologici e fisici che lo trasferiscono dall'atmosfera all'oceano.
La "pompa biologica" in cui la materia organica che affonda nell'oceano dove viene restituita al carbonio inorganico disciolto e alle sostanze nutritive attraverso la decomposizione batterica si stima che trasferisca 5-15 miliardi di tonnellate di carbonio ogni anno dalla superficie oceanica all'oceano profondo giocando un ruolo cruciale nel sequestro globale del carbonio. In media un atomo di carbonio trascorre circa 5 anni nell'atmosfera, 10 anni nella vegetazione terrestre e 380 anni nelle acque oceaniche intermedie e profonde.
Il carbonio può rimanere bloccato nei sedimenti oceanici o nei depositi di combustibili fossili per milioni di anni: sulla scala temporale di migliaia di anni, la chimica dell'oceano determina essenzialmente la concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera.
Gli scienziati hanno scoperto che i microbi, ad esempio i batteri, nelle parti più profonde del fondo marino assorbono il diossido di carbonio e potrebbero trasformarsi in una fonte di cibo aggiuntiva per altre forme di vita in acque profonde, batteri viventi 4.000 metri sotto la superficie nella zona di frattura di Clarion-Clipperton consumano anidride carbonica trasformandola in biomassa in un processo chemiosintetico. Circa 200 milioni di tonnellate di anidride carbonica potrebbero essere fissate in biomassa ogni anno da questo processo, pari a circa il 10% dell'anidride carbonica che gli oceani rimuovono ogni anno, ed è quindi probabile che costituiscano una parte importante del ciclo del carbonio nelle acque profonde.
Nodulo polimetallico accresciuto su un dente di squalo rinvenuto a 5.000 metri di profondità. Foto VELIZAR GORDEEV.
Oltre alla loro ricca biodiversità, i camini idrotermali costituiscono importanti aree in cui microrganismi specificamente adattati a questi ambienti consumano e sequestrano carbonio e metano, un gas a effetto serra con circa 25-50 volte la potenza del biossido di carbonio. Uno studio del 2016 pubblicato da 14 università e istituzioni oceanografiche ha evidenziato come il sequestro del carbonio dalle bocche idrotermali sia ancora più "esteso nello spazio e nel tempo di quanto si pensasse". Infatti, un autore dello studio ha avvertito che il rilascio di metano sequestrato potrebbe essere "un evento climatico apocalittico". Recenti scoperte scientifiche hanno inoltre rivelato che la maggior parte del calore in eccesso derivante dall'aumento nell'atmosfera di concentrazioni di gas serra sono state assorbite dalle profondità dell'oceano, limitando così in modo significativo gli impatti dei cambiamenti climatici sulla superficie dell'oceano e sulla terraferma.
Non conosciamo ancora i processi biologici e biochimici fondamentali alla base della pompa biologica, anche se ci sono prove che stimano stia assorbendo il 10% del carbonio diossido che gli oceani rimuovono ogni anno e le implicazioni in termini di perdita di questo elemento del ciclo del carbonio sulla regolazione del clima sono poco conosciute. Nonostante la loro importanza per l'uomo, gli oceani sono un ambiente solo parzialmente compreso: sono stati mappati grossolanamente ed appena il 15% del fondo oceanico è definito in ogni dettaglio. Il mare profondo rimane in gran parte sconosciuto ed i tassi di scoperta di nuove specie e habitat rimangono alti.
Le lacune nelle conoscenze scientifiche pertanto non permettono di valutare correttamente l’entità delle alterazioni al servizio ecosistemico del sequestro di carbonio e poco si comprende degli impatti sui nutrienti e minerali dal disturbo dei processi geologici e geochimici naturali che controllano ed influenzano questi processi in relazione all'estrazione dei fondali marini. In questo ambito si inquadra pertanto il rischio climatico del rilascio di carbonio immagazzinato in sedimenti marini profondi: l'estrazione in mare potrebbe disturbare fisicamente i sedimenti, interrompendo il sequestro del carbonio e risospendendo il carbonio immagazzinato nell'acqua. L'estrazione in acque profonde rischia quindi di influenzare il longevità e tasso di sepoltura del carbonio nei sedimenti di acque profonde.
Inquinamento luminoso ed acustico.
L'impatto del rumore sugli ecosistemi di acque profonde è pressoché sconosciuto. C'è senza dubbio un rumore di fondo costante, intermittente negli oceani rilevato dagli idrofoni del NOAA posizionati nella parte più profonda dell'oceano. Il campo sonoro ambientale è dominato dal suono dei terremoti, sia vicini che lontani, dalle eliche delle navi, dai richiami delle balene e dagli eventi meteorologici estremi come i tifoni. Sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere meglio gli effetti del rumore aggiuntivo generato dai macchinari minerari. Stabilire un livello di fondo per il rumore ambientale è necessario per consentire agli scienziati di determinare se i livelli nell'oceano stanno aumentando e come questo potrebbe influenzare gli animali marini, come balene, delfini e pesci che usano il suono per comunicare, navigare, e nutrirsi.
L'inquinamento luminoso è una preoccupazione crescente negli ambienti marini: le acque abissali più profonde al di sotto dei 4.000 metri sono completamente buie tranne che per la bioluminescenza. Le specie in questi ambienti si sono adattate a queste condizioni di oscurità e potrebbero essere significativamente influenzate dalle luci dei macchinari estrattivi. Si è scoperto che le luci dei sommergibili con equipaggio che esploravano la dorsale medio atlantica hanno danneggiato in modo permanente le retine dei gamberetti di acque profonde.Tuttavia, non ci sono quasi informazioni sui potenziali effetti dell'inquinamento luminoso su queste specie ed anche questi impatti devono essere quantificati.
Impatti diretti: danno inevitabile ed irreversibile.
Nel 1989, un gruppo di ricercatori tedeschi simularono i disturbi legati all'attività mineraria a 4.000 m sotto la superficie dell'oceano, arando un'area di fondale marino di 3,5 km di larghezza con un erpice aratro nel Pacifico orientale tropicale, a circa 3000 km al largo della costa del Perù.
Si è recato in quell’area un team internazionale del Max Planck Institute, dell'Università di Edimburgo per valutare gli effetti di quell’esperimento ventisei anni dopo riscontrando che le tracce dell'aratro erano ancora presenti. Precedenti studi avevano dimostrato che l'abbondanza e la densità microbica avevano subito cambiamenti duraturi in quest'area.
Hanno riscontrato significativi effetti a lungo termine dell'esperimento di simulazione mineraria del 1989. Soprattutto la parte microbica della catena alimentare è stata pesantemente colpita e pur essendo noti, i microbi, per i loro rapidi tassi di crescita il ciclo del carbonio nel cosiddetto ciclo microbico è stato ridotto di oltre un terzo. L'impatto dell'attività mineraria simulata sugli organismi superiori era più variabile. Mentre alcuni animali sembravano stare bene, altri si stavano ancora riprendendo dal disturbo, anche decenni dopo. Se l'estrazione simulata ha determinato un cambiamento nelle fonti di carbonio per gli animali il disturbo causato dalla vera attività mineraria nei fondali marini sarà molto più pesante di quello che si sta osservando ora moltiplicando così gli effetti, che quindi potrebbero portare a risultati imprevedibili, ed portando i tempi di recupero a dimensioni di carattere intergenerazionale.
Un patrimonio umano comune o un catalizzatore per i conflitti?
Gran parte dei siti estrattivi dei noduli polimetallici si trovano al di fuori delle zone economiche esclusive (EEZ) pertanto sono controllati dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), e l’attività in tali aree, di patrimonio comune, deve essere portata a beneficio dell'umanità nel suo insieme.
Ma l'estrazione può anche avvenire all'interno dei confini nazionali di alcune EEZ del Pacifico come le Isole Cook e Kiribati, sollevando domande su come valutare i costi ambientali e sociali a fronte di ipotetici benefici economici. È stato sostenuto che tali valutazioni dovrebbero essere condotte da esperti indipendenti e dovrebbero prendere in considerazione una giusta ed equa distribuzione della ricchezza come così come il valore ambientale a lungo termine degli ecosistemi di acque profonde. Le economie del Pacifico e le loro comunità saranno la prima linea a subire gli effetti qualora si dovesse procedere con l'estrazione mineraria: queste popolazioni dipendono fortemente dalla salute del loro oceano da cui ricevono cibo e reddito attraverso la pesca ed il turismo, settori già altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici.
E’ probabile che venga obbiettato che lo sfruttamento dei giacimenti sui fondali, sviluppato in acque profonde e lontano dalle coste, avrà un impatto minimo sulle comunità e sulle loro attività economiche, tuttavia in molte culture del Pacifico le generazioni sono viste come custodi, non proprietari, delle risorse marine, con la responsabilità di mantenerle e migliorarle per le generazioni future e per questi popoli i diversi ambienti oceanici costituiscono un continuum dove gli abissi sono collegati agli ambienti marino-costieri.
Molte delle tensioni sperimentate con le miniere terrestri stanno già riproponendosi con quelle sui fondali marini: nella Papua Nuova Guinea, una petizione e numerose rappresentanze della società civile chiedono al governo nazionale e provinciale di porre fine alle attività minerarie. In Nuova Zelanda, un'ampia coalizione delle organizzazioni comunitarie si è unita per fermare l'estrazione nelle acque territoriali del paese (EEZ), vincendo una causa in Corte d'Appello per impedirla nella Taranaki Bight. Nelle Isole Cook, organizzazioni comunitarie hanno commissionato studi indipendenti per presentare punti di vista alternativi e per stimolare un approccio cauto ed informato tra gli abitanti delle isole del Pacifico. Nel 2019, la Conferenza delle Chiese del Pacifico ha approvato una risoluzione per ottenere una moratoria nel Pacifico delle attività minerarie ed analogamente, in risposta alle preoccupazioni espresse dalla società civile, il presidente delle Fiji, sostenuto dal primo ministro di Vanuatu e dal primo ministro della Papua Nuova Guinea, ha chiesto una moratoria di dieci anni nelle acque nazionali del Pacifico. Sono decine le iniziative di questo tipo già intraprese.
Si suggerisce che l'industria mineraria potrebbe generare ricchezza per i governi ed attraverso canoni di concessioni e royalties potrebbe far progredire gli obiettivi di sviluppo di queste piccole nazioni. Tuttavia, la fattibilità finanziaria di queste operazioni deve ancora essere dimostrata e le incertezze presenti indicano che la loro redditività è lungi dall'essere assicurata. In passato queste iniziative hanno comportato notevoli perdite economiche per le società minerarie: l'unico progetto a cui è stata concessa una licenza operativa fino ad oggi ha provocato l'opposizione della comunità e, quando è fallito, ha comportato, come vedremo nella terza parte, una significativa perdita finanziaria anche per il governo della Papua Nuova Guinea.
I proventi delle miniere terrestri su larga scala possono fornire i fondi necessari per l'istruzione e l'assistenza sanitaria, migliorare i mezzi di sussistenza e sostenere lo sviluppo delle imprese con effetti positivi "a valle", ma nella regione del Pacifico spesso non sono riuscite a fornire vantaggi alle comunità ed alle economie nazionali ed hanno causato danni significativi rivelandosi alcuni dei progetti minerari storicamente più disastrosi dal punto di vista sociale e ambientale del mondo.
Smaltimento di rifiuti tossici dalla miniera di rame e oro della BHP Billiton nella Papua Nuova Giunea. Sono stati scaricati in media 20 milioni di tonnellate
di rifiuti nel sistema fluviale ogni anno mettendo a rischio distruzione oltre 6.600 chilometri quadrati di vegetazione. A seguito delle azioni legali BHP Billiton
ha trasferito la proprietà a un fondo fiduciario, fornendo fondi per lo sviluppo in cambio dell'immunità per azioni legali.
Anche i vantaggi derivanti dall'estrazione mineraria terrestre generalmente non sono distribuiti equamente e le comunità locali più colpite negativamente spesso non sono adeguatamente compensate. Inoltre, lo sfruttamento dei fondali marini presenta caratteristiche tali da ridurre il potere contrattuale dei governi nazionali per negoziare la partecipazione agli utili ed il rispetto delle normative, infatti si prevede che queste attività abbiano vita relativamente breve e che l'infrastruttura mobile consenta alle aziende di trasferire prontamente le attività minerarie. In definitiva quindi, la durata dei possibili vantaggi economici non è chiara e la forza lavoro richiesta, relativamente ridotta ed altamente specializzata, genererebbe pochi posti di lavoro per le popolazioni locali.
Ma queste speranze stanno già innescando conflitti regionali tra i sostenitori e gli oppositori dei progetti: i governi delle Isole Cook, Nauru e Tonga desiderano perseguire questa strada mentre altri propongono una moratoria. Conflitti che si estendono all'interno delle acque nazionali tra comunità, governi e compagnie minerarie: nelle Isole Cook le organizzazioni della comunità locale si oppongono a questi progetti ed è stato segnalato che un alto funzionario del governo ha perso il lavoro per aver sostenuto la proposta di una moratoria sull'avvio delle attività estrattive nei fondali oceanici. A Tonga sono state espresse preoccupazioni sugli esistenti squilibri di potere tra funzionari governativi, entità internazionali, funzionari locali e leader della comunità temendo, come spesso già accaduto in moltissime altre situazioni analoghe, che le piccole nazioni non siano in grado di esercitare efficacemente la loro sovranità per l'enorme differenza di risorse economiche ed influenza politica tra le due parti.
E’ difficile comprendere come l'estrazione in acque profonde possa essere socialmente o scientificamente accettabile, soprattutto nei fondali marini internazionali, che sono legalmente classificati come “patrimonio comune dell’umanità". Ma forse sarebbe più opportuno chiedersi: "Il piano di sfruttamento commerciale delle risorse non rinnovabili dall'oceano oggi è davvero nell'interesse dell'umanità? ".
Giovanni Brussato
Riferimenti:
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1. U.S. Geological Survey, Pacific Coastal and Marine Science Center, Santa Cruz, CA, USA.
2. Department of Physics & Earth Sciences, Jacobs University Bremen, Bremen, Germany.
3. Federal Institute for Geosciences and Natural Resources (BGR), Hannover,Germany.
3. A. Chin,K.Hari Predicting the impacts of mining of deep sea polymetallic nodules in the Pacific Ocean: A review of Scientific literature, Deep Sea Mining Campaign and MiningWatch Canada
4. NATURE - SCIENTIFIC REPORTS Biological effects 26 years after simulated deep-sea mining - Erik Simon-Lledó[1,2], Brian J. Bett[1], Veerle A. I. Huvenne[1], Kevin Köser[3], Timm Schoening[3],Jens Greinert[3,4], Daniel O. B. Jones[1]
1. National Oceanography Centre, Empress Dock, SO14 3ZH, Southampton, UK.
2. Ocean and Earth Science, University of Southampton, SO143 ZH, Southampton, UK.
3. GEOMAR Helmholtz Centre for Ocean Research Kiel, D-24148, Kiel, Germany.
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5. SCIENCE The Oceanic Sink for Anthropogenic CO2 Christopher L. Sabine, Richard A. Feely, Nicolas Gruber,Robert M. Key, Kitack Lee, John L. Bullister, Rik Wanninkhof, C. S. Wong, Douglas W. R. Wallace, Bronte Tilbrook, Frank J. Millero, Tsung-Hung Peng,5 Alexander Kozyr,Tsueno Ono, Aida F. Rios